PALAZZO CECCHI A LORO PICENO
Ne la “Rivista Marchigiana illustrata” Anno V n. 9 del settembre 1908, nell’articolo “Loro Piceno” l’autore, Carlo Cupelli dice: ”Degno di menzione è il Palazzo Municipale con il suo bel porticato, nonché quello del dr. Luigi Cecchi, che minaccia di offuscare qualunque altro edifico mercè le recenti rinnovazioni architettoniche a base di estetica modernità”.
Lavoratori a Palazzo Cecchi
Dante Tesei, novantatreenne di inossidabile memoria e Pierina Sciamanna, sua moglie, ci restituiscono con il loro racconto lucido e di grande efficacia evocativa l’immagine di Palazzo Cecchi, delle persone che vi abitavano o che a vario titolo vi entravano, della sua organizzazione.
Dalla loro testimonianza emerge così un tratto di storia di Loro Piceno: rapporti e gerarchie tra classi sociali, aspetti del potere, servizi e disservizi pubblici, impegni e tempo libero della classe abbiente, fatica, privazioni, livello di protezione sociale dei lavoratori, attività di artigiani e commercianti del paese, momenti di contatto con nemici e con liberatori durante il periodo bellico.
Puoi parlarci del tuo lavoro a Palazzo Cecchi?
Dante: Sono entrato a lavorare a casa Cecchi nel 1939, appena terminata la sesta classe della scuola elementare. Inizialmente andavo alla mattina per circa un’ora e non sapevo mai cosa avrei dovuto fare; verso le 10 o le 11 i signori mi dicevano di andare a casa mia.
Poi verso le 17 mi facevano tornare a palazzo. Allora la famiglia era formata solo da moglie e marito, cioè da Amilcare, detto “Sor Nino”, e dalla contessa Giuditta; stavano sempre insieme: erano una coppia consolidata. Lei lo chiamava “Ninì”. Poi nacquero i figli Teresa e Giacomo e fu assunta una donna per guardare solo i bambini. Mi chiamavano “lo sguattero”, mi mandavano di qua e di là perché a Loro c’erano tanti signori ma il perno era la contessa Cecchi. Proprio per la posizione della contessa, in casa c’era sempre tanta gente che andava e veniva, chiedeva informazioni e altro. La sera arrivava spesso qualcuno, di amici ne passavano tanti, perché il mangiare dai Cecchi c’era sempre, sia da mangiare che da bere, chi c’è stato ha sempre mangiato.
Io andavo a consegnare le lettere, a fare le spese con i biglietti, da solo ma senza soldi. A Loro c’erano due macellerie: Ivo (nella via di sotto) ed Euro. Loro ammazzavano un manzo alla settimana e ne prendevano metà ciascuno. Veniva comperato tutto perché a Loro eravamo tanti e c’erano tanti signori.
Allora non c’era il libretto: la spesa veniva segnata su un pezzo di carta che io portavo alla contessa. Poi a fine settimana la contessa mi chiamava e io mi mettevo seduto vicino al tavolo, io e lei, e si faceva il conto dei fornitori. Si comprava sia da Ivo che da Euro o da Romolo alla cooperativa che stava dove poi c’è stato Luiscetto e lì avevano tutto.
Da bambino non mi davano nulla, neppure Amilcare mi dava nulla. A Natale qualcosa. Poi mi davano tremila lire al mese e non bastava un mese per pagare un paio di scarpe. I primi anni lavoravo due-tre ore sia al mattino che alla sera e mi davano pochissimo. Poi mia madre andò a reclamare un minimo di paga: a casa all’inizio erano i miei genitori che lavoravano e si viveva sopra le loro spalle. Anche mio padre lavorava per i Cecchi: noi eravamo suoi contadini e quando servivano lavori pesanti andava lui come quando c’era da fare il vino. Siccome i Cecchi avevano per scaldarsi una stufa grande al piano di sopra del palazzo e ci voleva tanta legna, i signori chiamavano i contadini per tagliarla. Ma anche per cucinare servivano le fascine per il camino perché si cucinava tutto lì. Inizialmente i fornelli erano a carbone e bisognava sventolare. Un anno le fascine non bastarono e i Cecchi dissero che quell’anno i contadini avevano lavorato poco.
E tu, Pierina, puoi parlarci del tuo lavoro?
Pierina: Io sono entrata in casa Cecchi a 15 anni affiancata alla cuoca; io non sapevo niente. Quando arrivai mi dissero che la cuoca mi avrebbe insegnato ma dopo quattro giorni la cuoca fu mandata via e io, lasciata sola, piangevo dentro casa. Un giorno mi dissero di fare le polpette, ma io non le avevo mai viste e mai fatte: mi finirono tutte nel brodo disfatte. Allora Amilcare, che era tanto buono, mi disse di non crucciarmi, ma che avrebbero preso il mestolo per raccoglierle nel brodo. Lui era buono e capiva. La casa era gestita dalla contessa che sceglieva la servitù e organizzava le varie attività. Quando era giovane la signora d’estate veniva ad amministrare anche in cucina e a fare qualcosa. Se le serviva un piatto, ne sporcava cinquanta, tanto li lavavano le donne.
In cucina le pentole erano tante e si cucinava di tutto, in casa Cecchi c’è sempre stato da mangiare. Maria Luisa, la moglie di Giacomo, voleva questo o quello e con quei fornelli a carbone c’era da sventolare e sventolare. Io ero una bambina. D’olio me ne davano pochissimo: c’era da sudarlo. Noi della servitù per farlo bastare mangiavamo sempre senza condire, altrimenti non sarebbe bastato. Io ci sono stata circa tre anni dai Cecchi. Lì ho conosciuto Dante e poi ci siamo sposati. A me la cameriera diceva sempre che mi sarebbe venuta ad aiutare ma così non fu. Non mi venne mai ad aiutare in cucina. Quando la cameriera andava di sopra e andava a stirare, a me toccava verso le diciassette andare ad aiutarla. Dovevo stare lì e zitta.
I signori di cuoche e di donne ne cambiavano molte. C’erano, oltre la cuoca, la cameriera e un’altra donna per pulire, mentre per lavare avevano una contadina alla quale davano i panni più o meno una volta a settimana e lei li lavava a mano. Faceva il bucato con la cenere e poi li riportava su belli puliti e stirati. Poi c’erano più cameriere perché servivano anche per attaccare i bottoni o rammendare gli abiti e stavano tutta la mattina. Poi verso mezzogiorno portavano a tavola. Le cameriere erano di Colmurano: Dina e Maria. Una era tanti anni che stava con loro, avrà avuto più di cinquanta anni.
Quando in casa erano tutti, della famiglia e della servitù, quante persone c’ erano a palazzo?
Dante: Erano tante. Due donne di servizio sempre, d’estate per 4/5 mesi; quando non bastavano queste, chiamavano anche Alda Cimarosa, anche Maria de Giuvina, la madre del muratore. Quando veniva la figlia Teresa si portava anche lei la donna di servizio. Erano sempre una decina di persone di servizio più loro di famiglia. Amilcare, la contessa, l’avvocato, la moglie, i figli … In tutto una ventina di persone.
C’erano animali da compagnia?
Dante: No, c’erano solo i polli, perché li portavano i contadini e li tenevano di sotto. Ma tanti, perché a Natale i contadini dovevano portare tre paia di capponi, vivi, ai Santi un paio di polli, a Carnevale un altro paio di polli, dopo la mietitura un altro paio di polli (come da contratto mezzadrile, n.d.r.). Era sempre pieno di polli anche se qualcuno ne moriva. A Loro i Cecchi avevano un cavallo per la carrozza coperta, ma lo teneva mio padre qui, in questa casa (appena fuori dal centro abitato, n.d.r.). Qualche volta, appena finita la guerra, Amilcare ci andava in giro ma ce lo portava babbo. Dopo, il cavallo non si teneva più e nei pomeriggi d’estate verso le 16,00/17,00 Amilcare usciva, ma faceva venire un taxi da Tolentino. Il taxi non veniva tutte le sere ma una sera sì e una no.
Chi si occupava dell’amministrazione?
Dante: Amilcare comandava sui contadini. Lui era buono, non ha mai mandato via un contadino ed è stato sempre onesto. Anche verso la fine della vita, quando io avevo difficoltà nei rapporti con il nuovo amministratore che mi minacciava di togliermi la casa e i terreni, mi disse che i possedimenti erano i suoi e finché viveva lui, era lui che comandava: “Finché vivo io, tu stai con me e nessuno ti può dare fastidio”.
Fu anche presidente della Cassa di Risparmio e passava molte ore a firmare assegni. Tirava avanti l’amministrazione e si occupava anche della Società Operaia.
La contessa era la presidente dell’Asilo Infantile che allora stava sopra l’attuale farmacia e, durante il fascismo, quasi fosse il Segretario Federale, comandava più del Prefetto. Loro vivevano di rendita, avevano moltissimi terreni.
Come trascorrevano il tempo libero i signori Cecchi?
Dante: Nelle ore libere la contessa amava molto fare i cruciverba e faceva anche il tombolo. Aveva un telaio che mamma le preparava per farle tessere la tela. La contessa aveva due telai: uno più piccolo e uno più grande. Con uno faceva i centri (sorta di tovaglietta ricamata, che si dispone su un tavolo o su un vassoio, n.d.r.) e con quello più grande la tela. Però per rimettere i fili e prepararlo chiamava sempre mia madre.
Pierina: Con quello più piccolo la signora ci faceva la passamaneria: solo lei la faceva.
Dante: Sì, la contessa lo usava come passatempo. Tutti i pomeriggi veniva a farle compagnia Pina Mori fino alla sera e quando faceva notte bisognava riaccompagnarla a casa perché c’era il coprifuoco. Qualche volta veniva Elsa, la moglie di Onesto Mochi, e la sera anche lei stava con la contessa a parlare e farle compagnia. Solo queste persone frequentavano assiduamente la casa. A me la contessa diceva che quando arrivava Elsa non era necessario avvisarla ma doveva essere fatta passare direttamente. Mentre, se si presentava qualcun altro, la contessa doveva essere avvisata. Se non era una persona gradita non veniva fatta entrare.
In casa, nel salone grande c’erano molte librerie fatte da “Gabriè” (Gabriele Piatti, abile ebanista del paese, n.d.r.) con gli sportelli a rete, piene di libri che Amilcare leggeva e che furono poi messi in almeno venti sacchi in occasione di una diversa destinazione delle stanze. D’inverno Amilcare ci passava tempo: un sacco per volta. Poi mandò a rilegare quei libri che ne avevano bisogno.
Nel salone sotto c’era anche un pianoforte. Ma nessuno di casa lo suonava né lo ascoltava. Lo usava solo il maestro Ugo Valentini, amico di Amilcare, che poteva venire a suonarlo quando voleva.
Amilcare era anche amico di Don Rolando e qualche volta lo invitava a mangiare. Mangiavano insieme. Amilcare ascoltava la messa di Don Rolando (R. Di Mattia, successivamente parroco di Loro per decenni, n.d.r.) ma poi gli diceva sempre che le prediche erano fatte bene, ma che solo lui era stato in grado di capire e che gli altri presenti non capivano niente di quello che predicava. Don Rolando rispondeva che lui non poteva farci nulla: era abituato così.
Come si svolgevano le attività legate ai raccolti di uva, olive, grano e prodotti dell’orto?
Dante: L’olio lo facevano al frantoio, dove adesso stanno Sacchetta e Pozo’, lì stava il frantoio. Il padre di quello del frantoio era un amico della contessa e loro facevano sempre questione. La contessa diceva che l’olio era sempre cattivo. Ma poteva essere buono? Perché prima del 25 novembre non si poteva andare a raccogliere l’oliva, poi veniva portata in magazzino e messa a terra. Il magazzino era senza finestre. Si doveva aspettare che tutti i contadini raccogliessero: solo verso Natale si faceva l’olio. Ma sopra, intanto, c’era un “furculu” (misura che si ricava tenendo il pollice orizzontale e l’indice verticale, n.d.r.) di muffa sulle olive. Poteva venire buono? Ogni anno era la stessa cosa. Poi chiamavano due o tre contadini per togliere i “piccichitti” (peduncoli, n.d.r.) tanto loro non spendevano nulla per la manodopera, chiamavano i contadini! Certo, più che altro veniva chiamato Gigio de Ciaraglia, cioè il padre di Fausto Paoloni, lui era tanto buono e loro gli facevano fare tutto.
Le olive venivano macinate anche con la macina grande che si trovava di sotto, quella con la vite di legno, serviva per macinare le olive e veniva girata con un asino; quella l’ho vista in funzione come anche le presse con le viti di legno. Chi portava l’asino non lo so, non mi ricordo. Poi di frantoio c’era anche quello dove stava Lu Pastà che abitava dove stava Gigetto Lu Carzolà.
Le vasche di sotto venivano usate per depositare l’oliva perché prima l’olio si prendeva con la “piana” cioè un piatto per prendere l’olio che galleggiava sopra l’acqua. Al frantoio avevano una vasca grande dove mandavano l’acqua: sopra usciva l’olio. Una volta la vasca si vuotò e addio acqua ma anche olio!
L’olio non lo vendevano, anzi avevano la dispensa piena di damigiane, lo regalavano anche alle monache, ma non a noi di casa.
Dante: Però quando noi compravamo le castagne e gliele facevamo assaggiare, se avevamo speso 10 ci ridavano 15.
Pierina: A me, per esempio, il giorno di san Pietro, perché mi chiamo Pierina, mi regalavano sempre qualcosa.
Dante: Il grano invece, dopo la raccolta lo vendevano. Lo comprava soprattutto il molino di Urbisaglia.
Il vino lo vendevano a una ditta di Civitanova perché prima si trovavano solo le botti di legno. Gli operai venivano al mattino e riempivano le botti con la pompa a mano. Una mattina vennero con la pompa elettrica, non a mano, a volt 380, ma la corrente non c’era, allora la contessa mi disse che dovevo andare a Urbisaglia da quello dell’Enel, ma quello dell’Enel di Urbisaglia non poteva attaccare lui la corrente a volt 380 ma doveva avere l’autorizzazione da quello di Sarnano. Allora con la vespa andai a Sarnano e tornai con l’autorizzazione e tirammo fuori tutto il vino, perché con la pompa a mano ci voleva una giornata mentre con quella elettrica in un’ora fu tirato fuori tutto il vino.
Dove adesso abita “Lu Campusantà” (addetto municipale ai servizi cimiteriali, n.d.r.) lì c’era la cantina e si pestava l’uva; poi c’erano due “callare” (grandi recipienti in rame per la cottura del mosto, n.d.r.) e si faceva fuoco per circa un mese e ogni ventiquattro ore si rimetteva mosto e da lì si mandava poi il mosto cotto alla cantina. All’inizio si portava sulle spalle con i “varrì” delle piccolissime botti di 70 litri sulle spalle, ma la “callara” era di 24 quintali e ci voleva tanto tempo per vuotarla. Due erano le “callare”.
Per quanto riguarda i prodotti dell’orto, Cecchi aveva tre contadini ortolani che un giorno sì e uno no portavano ceste di ortaggi che poi Amilcare regalava a Don Rolando, alle monache, al ricovero, al farmacista Santini. Arrivavano anche i cocomeri ma non erano per noi, venivano regalati.
D’inverno dove venivano conservati i cibi?
Dante: C’era il pozzo e c’era una piccola grotta (“grotte”: locali sotterranei ai palazzi, sempre freschi che si estendevano fino ad altre abitazioni, n.d.r.) dove oggi c’è casa di Franco Emiliozzi “lu Campusantà”, ma non è che avanzasse tanta roba. Di sotto c’era una cisterna e li mettevano lì dentro, ma poca roba, non avanzava quasi nulla, perché quello che avanzava a loro di giorno, lo “rpassava” (lo dava, n.d.r.) alla servitù alla sera.
Nel corso degli anni, il lavoro presso la famiglia Cecchi, è cambiato?
Dante: Col tempo il mio impegno aumentò sempre di più e così le ore di lavoro. Per esempio venivo mandato a prendere l’acqua alla fontanella delle monache con la damigiana sulle spalle. Ma ovviamente alla fontana non c’ero solo io con la damigiana, arrivavano tante persone, chi con le bottiglie, chi con i fiaschi e prima di riempire una damigiana ci volevano anche due tre ore. Poi c’era da riportarla al palazzo piena e pesante. Dove c’è la farmacia adesso c’era il fabbro Gino (Igino Taccari, n.d.r.) con Ninì che chiamavamo padre Remo. Chiedevo a padre Remo se aveva sete e lui mi diceva di sì; io lo facevo bere e lui mi aiutava a portare la damigiana.
L’acquedotto c’era, ma non arrivava mai l’acqua e i Cecchi facevano sempre questione con il Comune per questo. La mancanza di acqua toccava naturalmente anche i servizi. All’inizio in casa c’era un bagno piccolo al piano di sotto (attuale Via Monte Grappa, n.d.r.) e uno al piano di sopra. Poi sotto, dove fu fatto l’appartamento per la sorella dell’avvocato Giacomo, fu realizzato un bagno con la vasca. Sopra non c’era la vasca e per far andare l’acqua sul bagno di sopra Bergen (B. Cecchi bravo stagnino locale, n.d.r.) aveva fatto due serbatoi di zinco in soffitta e una volta, per andare ad aggiustarli, pestò male e si sfondò il pavimento e lui cadde di sotto. Più tardi furono messe le cisterne che mandavano l’acqua di sopra. Ultimamente fecero un altro bagno dentro la camera al piano sopra; per quel bagno c’era un serbatoio in soffitta. L’acqua della cisterna per andare di sopra aveva bisogno di una pompa che l’avvocato Giacomo mise più volte, ma siccome la pompa era a 220 volt e la corrente nel palazzo a 125 volt, la pompa si bruciava subito.
Un altro incarico che mi hanno affidato è stato quello di vendere i maiali.
I contadini allevavano i maiali, magari un contadino ne aveva dieci e doveva dare da mangiare a tutti: gli venivano dati cinquanta chili di roba da far mangiare. Quel contadino per il giorno dopo non aveva più niente e tornava a chiedere altro cibo per gli animali. I Cecchi si rifornivano al Consorzio che poi mandava la fattura; ultimamente la contessa faceva i buoni e se non c’erano i buoni, il Consorzio non dava nulla.
Ebbi anche l’incarico di sorvegliare la casa: dormivo lì a palazzo, d’inverno con la neve e il freddo.
Oltre all’uso dell’Acquedotto e della Rete Elettrica, quali altre migliorie ci furono a Palazzo?
Dante: Dopo il 1950 fu rimodernata la cucina e ci furono i fornelli a gas. Le bombole le vendeva Bergen Cecchi. Il Palazzo aveva continuo bisogno di manutenzione. I Cecchi avevano un muratore sempre dentro casa. Allora c’era “Maretto de Merdella” al quale la contessa diceva: “ma com’è che attappi (accomodi, n.d.r.) da una parte e dall’altra c’è bisogno?” “Sa signora, l’acqua è fina un bel po’!” rispondeva Maretto. Era una persona piacevole e “fregnacciara” (cioè che racconta episodi non sempre veritieri ma divertenti all’ascolto, n.d.r.) che la contessa ascoltava volentieri sedendosi lì vicino: un po’ per prestare attenzione a ciò che diceva, ma anche per vedere quello che faceva.
In casa c’era la radio, che l’avvocato riparava, con cui la famiglia, durante la guerra, ascoltava “Radio Praga”. Dopo la guerra l’avvocato comprò il televisore e lo mise nel salone al piano terra per far vedere la tv anche agli altri che nei mesi estivi potevano guardarla dalla finestra che si affaccia lungo la via pubblica.
Che ricordo avete del periodo bellico?
Dante: Durante la guerra, poiché il palazzo di Urbisaglia era occupato, i Cecchi furono sempre a Loro. Anche qui c’era il presidio militare polacco: c’erano solo polacchi, non gli inglesi. Occuparono mezza casa e noi non potevamo neppure salire le scale perché c’erano loro; ci servivamo di una scala secondaria e andavamo da quella. I polacchi non andavano in giro; per portare loro da mangiare non si usavano le scale ma da una finestra si passava il cibo con un canestro e una carrucola al piano di sopra. La cucina era al piano terra, è stata sempre lì.
Durante la guerra il pane si faceva in casa e si portava a cuocere da Aurelia (Aurelia Mochi, storica conduttrice del locale forno a legna, attiva fino al 2002, n.d.r.). La sera, con la venuta delle ore di coprifuoco, una guardia con il fucile si piazzava avanti al portone e io per tornare qui a casa, qui dove sono ora, dovevo avere il permesso che firmavano i polacchi.
Avevano occupato tutta la terrazza più alta (non quella in basso dove c’erano i fiori) e lì c’era una mitragliatrice che guardava tutta la parte verso mare. Quella postazione serviva per capire se ci sarebbe stata la ritirata dei tedeschi. Il fronte in quei mesi si fermava sul fiume Tenna e accadde che una sera, qui a casa, passò una motocicletta di tedeschi e noi non capivamo nulla di quello che dicevano. Uno parlò con babbo che gli fece vedere le vacche e quello gli fece capire di portarle via al più presto perché il giorno dopo sarebbe arrivata la truppa e “zicchi, zicchi” (la parola richiama il rumore di un taglio ed è accompagnata da un gesto significativo alla gola, n.d.r.) le avrebbero uccise e portate via. Allora noi le portammo da piedi al campo, dietro un canneto. La sera arrivò prima una motocicletta, poi ne arrivarono altre e tutta la truppa con varie bestie e agnelli che avevano preso da altre case. Babbo aveva una botte di vino vicino all’ingresso e la finirono tutta, si erano ubriacati e stettero qui per terra tutti a dormire. Verso mezzanotte arrivò un’altra motocicletta e si misero a parlare forte tra di loro. Dopo 5 minuti erano tutti in piedi e sparirono, tutti, perché gli alleati erano arrivati al ponte di Massa e loro dovevano correre. Al Palazzo i polacchi non stettero molto tempo perché il fronte, che era sul fiume Tenna, poi si spostò.
E dopo la guerra?
Dante: Dopo la guerra i Cecchi verso Natale si trasferivano a Tolentino e prima che tornassero in primavera a Loro c’era da pulire tutta la casa. C’era da pulire il salone; bisognava lavare tutto il pavimento con la soda (si tratta di un pregevole pavimento in cotto antico, n.d.r.). Per questo lavoro chiamavano tutti i contadini e quattro o cinque donne. I Cecchi ti passavano da mangiare ma c’era da pulire tutto e ci voleva molto tempo perché bisognava anche tirare fuori tutti i mobili; loro arrivavano verso maggio. Ricordo che si facevano molti ricevimenti, ma non c’erano famiglie di Loro, gli invitati venivano da Macerata, erano persone della Prefettura e della Questura, tutta gente di fuori, anche molti avvocati conoscenti di Giacomo. Le donne, le mogli, erano poche. Per i ricevimenti a tutto provvedeva un bar di Macerata: preparavano ogni cosa e portavano qui a Loro tutto già pronto.
Ricordate qualche festa in particolare?
Pierina: A Natale di questi tempi facevano i cappelletti (pasta ripiena con impasto di varie carni, parmigiano, uova, noce moscata, cotta nel brodo di cappone, n.d.r.) li faceva lei con lui e li contava tutti uno per uno: tanti ciascuno. Si facevano i pupi di mosto (filoni che dopo il taglio e un secondo passaggio in forno, diventano biscotti, n.d.r.); a casa, poi li cuocevano da Aurelia. Poi si tagliavano a fette, le fette le tagliava tutte Aurelia, tutte uguali e lei, la contessa, le contava: ogni biscotto tante fette. Dopo la seconda cottura, la contessa ricontava le fette e doveva riportare il numero dei biscotti: lei stava lì a controllare, se uno aveva voglia, niente.
Quando vuoi due vi sposaste, i Cecchi fecero qualche osservazione?
Dante: No, a loro non interessavano i nostri affari, però per il matrimonio ci regalarono una sveglia e una maglia e quando nacque Sandra ci regalarono il vestito per il battesimo.
Dante, tu e Pierina, dopo sposati, siete tornati a dormire a palazzo dai Cecchi?
Dante: Sì, quando loro desideravano. Io non dormivo più nella cameretta a destra in cima alla prima rampa di scale, ma eravamo stati sistemati in una camera di sopra, testa a testa con la loro. Se avevano bisogno di qualcosa durante la notte, noi eravamo vicinissimi.
Al mattino io, senza fare rumore, mi alzavo e andavo a lavorare nei campi, Pierina invece, doveva aspettare finché non facevano colazione, verso le 8.00. Lui mangiava latte e caffè con il pane abbrustolito. Dopo, anche Pierina partiva dal palazzo e veniva qui a casa a lavorare.
Dopo che i Cecchi si furono trasferiti a Tolentino avete mantenuto rapporti personali con loro?
Dante: Certamente: ogni domenica io e Pierina andavamo a trovarli e dovevamo portare il pane di Aurelia per tutta la settimana. Loro mangiavano il pane di una settimana (si trattava di un pane eccellente che si conservava per molti giorni, n.d.r.).
Chi morì prima, la contessa Giuditta o Amilcare?
Dante: Morì prima lei, dopo lui non tornò più qua a Loro. Non mi ricordo l’anno preciso in cui la contessa stava male e fu ricoverata alla clinica Marchetti di Macerata, per circa un mese. Io dovevo andare per tutta la giornata, tutti i giorni, a farle compagnia e tornavo a casa la sera. Dopo un mese circa le dettero una “ricciucciulata” (miglioramento parziale e provvisorio della salute, n.d.r.) e venne qui a Loro, ma rimase poco. Dopo non molto tempo morì.
Voi andaste al funerale?
Dante: Sì, tutti e due. C’era tanta gente, quasi tutti i parenti e quelli che lei conosceva per affari. È morta a Tolentino ed è sepolta ad Urbisaglia con il solo cognome del marito.
Quando morì Amilcare?
Dante: Amilcare morì all’improvviso. Il giorno prima ero stato da lui. La mattina dopo mi telefonò l’avvocato di correre, che il padre era morto, così all’improvviso. Era morto a Tolentino. Non stava benissimo, doveva stare attento a quello che mangiava, ma non stava a letto, e così all’improvviso non pensavo che potesse morire. Io e Pierina siamo andati al suo funerale a Tolentino, e anche lui è stato sepolto a Urbisaglia.
C’era tanta gente, tanti amici: lui era buono.
Testimonianza raccolta nel dicembre 2021 da Maria Donata Bracci e redazionata con Simonetta Santini.
Nota della redazione:
Amilcare Cecchi nato il 24/05/1882, morto il 22/03/1970
Giuditta dei Conti Gentiloni Silverj nata il 06/05/1885, morta il 08/04/1968