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🖊 Lettera aperta alla redazione di Anna Mandozzi.

Quella terra tanto amata…



L’autrice descrive con passione e lucidità di ricordi un periodo felice della propria infanzia trascorsa a Loro Piceno con la numerosa famiglia, nella casa che si affacciava lungo l’attuale Via Monsignor Cicconi, in prossimità del piazzale San Liberato.

Il racconto si snoda dal 1949 al 1960.

La famiglia Mandozzi

La mia famiglia approdò nel piccolo paese di Loro Piceno nel 1949. Mio padre, appuntato dei carabinieri, vi fu trasferito da Sarnano per motivi di servizio.

Eravamo una bella famiglia numerosa: mio padre Daniele Mandozzi nato nel 1908, mia madre Giuseppina Mannozzi (cognome curiosamente simile a quello acquisito con il matrimonio, n.d.r.)  nata nel 1912, i miei fratelli Vèlito nato nel 1937, Giovanni (all’anagrafe Trento) nato nel 1939, Vittorio nato nel 1940, Roberto nato nel 1944, io Anna nata nel 1947 e mia sorella Graziella nata nel 1949 pochi mesi prima del nostro trasferimento a Loro Piceno.

A Loro Piceno nacque il settimo figlio, Settimio, ma visse solo poche ore, e ora riposa nel piccolo cimitero del paese: qualcosa di noi è rimasto in quella terra tanto amata.

Mio padre per il proprio lavoro ebbe parecchi trasferimenti, per cui i primi due figli nacquero ad Amandola, Vittorio a Roma (dove rischiò di perdersi in un rifugio antiaereo), Roberto ad Amandola e noi femmine a Sarnano.

Abbiamo vissuto a Loro Piceno solo poco più di dieci anni ma sono bastati, a noi tutti, per farcelo rimanere nel cuore per tutta la vita.

L’infanzia e l’adolescenza hanno avuto un ruolo importante, di certo, ma la serenità di questo posto e la cordialità dei suoi abitanti hanno reso la nostra permanenza indimenticabile.

I ragazzi, terminata la frequenza scolastica, cominciarono a inserirsi nel mondo del lavoro. Vèlito perlopiù si dedicò all’attività di calzolaio, Giovanni alla sartoria, prima da Ridolfi, poi sotto la maestria di Antonio Mastrocola. Vittorio preferì aspirare a diventare fabbro sotto l’occhio vigile di Amato Lisi detto “Maretto”. Roberto trascorse un periodo in seminario, se ricordo bene, a Bologna. Io iniziai le medie ad Amandola, ospite di due mie zie materne. Gli studi si interruppero per me con il nostro trasferimento a Porto Sant’Elpidio, nel 1960 ma ripresi qualche anno dopo.

A Loro Piceno ho trascorso solo la mia infanzia, ma i miei ricordi sono molto vivi. Ricordo l’unione molto profonda con la famiglia Camacci: Gabriella, la maestra Gina, sua sorella, che mi è stata di grande aiuto per i miei studi, la signora Maria e la tragedia della sua morte, il signor Pasquale, l’arrivo di Tullio in quella casa, la nascita di Pietro e di Maria Donata che credo sia nata dopo il nostro trasferimento. Tullio era il marito della maestra Gina, un uomo dalla dolcezza infinita con noi bimbi che giocavamo sempre nello spiazzale davanti alla casa. Ad ognuno di noi aveva dato un soprannome a seconda degli eventi quotidiani. Per esempio, quando mamma mi mandava da lui a chiedere “lo rosmarì” (il rosmarino, n.d.r.), lui mi chiamava “Rosmarì”. Sempre cordiale anche quando negli anni a venire sono stata ospite della sua famiglia.

Ricordo i nostri vicini: Nella, Teresa, Antonietta, Santa e “Catarì”, Bianca ed Ernani, Anna e Giuliana, “Giannino lu Callarà”, Maria Cecchi, Maria “de Rorò”, Teresa “de Tomassì” e il loro figlio Primo e il loro cane Io, le monache di clausura a cui chiedevamo i ritagli delle ostie, Don Rolando, Don Tarcisio, la maestra Adelaide e il maestro Ugo Valentini.

Inoltre ricordo i miei compagni e compagne di scuola e di giochi: Tamara, Mariella, Maria Rosa, Cesarina, “Annarella”, Rosalba, Agnese, “Giannino”, “Lu Murittu”, Romano, Anna Maria, Agnesina, Gaudiano, Marinella e i suoi genitori, Bice e “Fefè”, il futuro dottor Ceccarani.

Ancora gli amici e le amiche dei miei fratelli: Sandro, Osvaldo, Elvio, “Pippino”, Carlo ”Pìcciola e suo fratello Agostino, Giuditta, Eleonora, Gennarina, Antonietta (fidanzata per un breve periodo con mio fratello Vèlito) e tanti altri.

Le meravigliose chiese: Santa Maria, Santa Lucia, San Francesco, tempio delle nostre Prime Comunioni e Cresime.

Luoghi di gioco, vicoli e spiazzali: “Lu Gljrò”(Il Girone, storico parco pubblico, n.d.r.), il campo sportivo dove giocavano i miei fratelli, il teatro e cinema parrocchiale, la sala di lettura delle Acli dove trascorrevo molte ore, la sala della televisione sempre alle Acli dove ci era permesso di guardare il Carosello e qualche commedia di Edoardo De Filippo, i giochi di “Lascia o Raddoppia” e “Il Musichiere”. Mi viene in mente un altro luogo sacro: “Lu Puzzittu” (lavatoio pubblico in prossimità del centro storico, n.d.r.).

Questa è stata la mia infanzia a Loro Piceno, la culla dello spirito. Il distacco è stato doloroso per tutti noi. Dopo il pensionamento di nostro padre urgeva dare a noi figli un lavoro più sicuro e redditizio e Porto Sant’Elpidio, con il suo sviluppo economico in ambito calzaturiero, sembrava il luogo più adatto. Mi sono sempre chiesta come sarebbe stata la nostra vita se fossimo rimasti a Loro Piceno. Abbiamo attenuato la nostalgia tornando quasi ogni anno in questo amato paese trascorrendo giorni interi tra i ricordi.

Ora, oltre ai miei genitori, non ci sono più Giovanni, Roberto e Vèlito. Tutti ci siamo sposati e tranne Vittorio, abbiamo avuto tutti figli e nipoti. Alcuni di noi, hanno cambiato percorso lavorativo, dopo qualche anno dal trasferimento.

Non ho amato nessun luogo come ho amato e amo Loro Piceno.

                                                                                  Anna Mandozzi

Un momento particolare della vita di Anna Mandozzi: il trasferimento in collegio.

……..“La donna si muoveva nella stanza con passi felpati, non aveva acceso la lampada della camera ma quella del corridoio, la luce arrivava fioca e lei spostò le valigie per non inciampare. Sbirciò dai vetri della finestra, era buio pesto. Il marito indugiava nel tepore delle coperte, tanto lui avrebbe fatto presto a vestirsi. Le due figlie che dormivano con loro erano immerse nell’innocente mondo dei sogni. In realtà la più grande era già sveglia, l’eccitazione per il viaggio e le fantasticherie di cui aveva parlato con la sorella la sera prima l’avevano privata del sonno profondo tipico dei bimbi, ma rimaneva immobile quasi considerasse quella situazione una colpa. Ben presto la mamma le scosse: “Forza è ora”. Aveva preparato gli abiti per vestirle appena scovate dal letto. Faceva freddo. Era solita accendere il fuoco prima che il resto della famiglia si alzasse ma questa volta non era possibile. Si partiva per un lungo viaggio in treno. Destinazione un collegio, uno di quelli dove non si pagano rette, dove le bimbe avrebbero avuto un futuro migliore sia nel campo scolastico, sia nell’apprendimento di un mestiere. E poi ci sarebbero state due bocche in meno da sfamare.

Il viaggio in treno era ciò che le piccole avevano più a cuore, per loro era come una vacanza. Non che sapessero cosa fossero le vacanze, non ne avevano mai fatte, non avevano mai visto una località di montagna, non avevano mai visto il mare né tantomeno un treno, ma ne avevano sentito parlare dai figli dei ricchi del paese che quando tornavano dalla villeggiatura si dilungavano in racconti da favola. Ora anche loro avrebbero potuto fare altrettanto. Non sapevano ancora che non era la stessa cosa.

Il papà era quasi pronto nel suo vestito trito e ritrito delle occasioni, ma nella sua magrezza e nella sua postura da militare, che non abbandonava mai, risultava sempre elegante. La mamma si dette un’ultima occhiata nella grande specchiera sopra il comò, i capelli perfettamente raccolti da una retina quasi invisibile, anche lei nel suo abito delle occasioni di un grigio perla con dei fiorellini viola sparsi qua e là. Il fisico un po’ sformato dalle tante gravidanze, ma rimaneva una bella signora. “Signora” la chiamavano tutti in paese, forse perché era la moglie dell’appuntato dei carabinieri, “quella con tanti figli” aggiungevano. Prese le valigie, percorsero il corridoio e si fermarono in cucina. C’era un’ultima cosa da fare. Le due figlie, che erano le più piccole della covata, di sette e nove anni, salirono al piano superiore. Il fratello più grande era fuori per lavoro, gli altri tre le salutarono con la pigrizia e la lentezza di chi vuole rimettersi subito a dormire, poi in quella famiglia non si era abituati a manifestazioni di affetto. Ridiscesero le ripide scale e ne fecero altrettante per arrivare al portone di casa. Il freddo e il buio li inghiottirono. Il papà era già avanti, la mamma con la figlia più piccola appiccicata alla gonna, qualche passo indietro. La più grande andava piano, si sentiva come sospesa nel vuoto, per lei la notte era la sera, quando ancora le persone sono in movimento e dalle finestre si vedono le luci delle lampadine e i riflessi dei focolai accesi. Quella invece era una situazione irreale. Si strinse addosso il misero cappottino e proseguì. Alla fine dello stretto vicolo cominciò ad intravedere la luce del lampione dello spiazzale, ma notò che insieme a quella se ne mischiava un’altra più bianca, più fredda. Nello spazio più ampio si fermò. La mamma la sollecitava: ”Muoviti o faremo tardi”. Cercando di smorzare la voce per non farla riecheggiare in quel silenzio assordante. Ma lei non si mosse. Cercava di realizzare e realizzò. Si girò, voltò lo sguardo al cielo e la vide: perfettamente tonda, luminosa e tanto vicina da poterla toccare e le sorrideva. Fu così che la piccola Anna scoprì la luna……

……“Mentre percorrevano il lungo viale, Anna vide la luna che giocava a nascondino tra gli alberi del bosco. Le disse addio. Certo, l’avrebbe ritrovata, ma sarebbe stata tutta un’altra cosa. Al suo paese non poteva goderne la meraviglia come lì, anche perché non poteva di certo alzarsi in piena notte. Pernottarono nel piccolo paesello e l’indomani cominciò l’avventura all’incontrario. Era una giornata limpida ma fredda. Questa volta il viaggio iniziò di giorno e finì di notte. La sorellina non patì molto, anche perché la mamma era sempre vicino a lei premurosa ed accorta. Ma il percorso era interminabile, non si percepiva aria di festa, erano tutti provati nel corpo e nell’anima. La piccola Anna guardava scorrere i paesi”……

Ricordi di infanzia

Due persone molto importanti della mia infanzia a Loro Piceno spronarono la mia volontà a proseguire gli studi nel mio futuro: furono la maestra Adelaide e il maestro Ugo. La maestra Adelaide mi seguì dalla prima elementare fino a metà percorso della quarta, quando con mia sorella partimmo per il collegio. Era una donna dolcissima, con una forte empatia verso i propri alunni. Per me una seconda mamma. Quando tornai dal collegio andarla a trovare fu la priorità assoluta. Sapevo che non avrei potuto più godere del suo insegnamento. Ero entrata in quinta elementare ed il nuovo maestro sarebbe stato Ugo Valentini che in modo diverso ma altrettanto commovente entrerà nel mio cuore. Ecco come li ricordo nel mio libro delle memorie.

“…in collegio era entrata in quinta elementare, ora poteva concluderla al suo paese. Poi tutto sarebbe finito. Il pensiero andò alla maestra Adelaide che l’aveva seguita dalla prima elementare fino ai primi mesi della quarta. Non l’avrebbe ritrovata, perché la quinta veniva “presa” dal maestro Ugo, che lei aveva avuto modo di conoscere perché seguiva il coro della scuola, di cui la piccola Anna faceva parte. Non sapeva ancora che il maestro Ugo avrebbe avuto un ruolo importante nella sua vita …

La piccola Anna si trovò bene nella nuova classe, non risentì affatto del cambiamento, anzi come programma era pure avanti. Il maestro Ugo la prese sotto la sua ala protettiva. Cercò per giorni e giorni di convincere i genitori a trovare una soluzione per iscriverla alle medie. Il papà era pronto a parlarne ma la mamma non era affatto d’accordo: oltre al fatto economico, lei non riteneva importante lo studio per una donna. Il maestro pazientò, ma si avvicinava la scadenza per l’iscrizione ed allora si decise. Convocò i genitori e con l’autorità che gli competeva parlò loro a lungo. Era un omone all’apparenza burbero e con gli occhiali sempre calati sul naso; quando doveva scrutare qualcosa guardava sempre al di sopra di essi. “Non tarpate le ali a questa bambina” cominciò il maestro “lo studio è la sua vita” e si dilungò in fraseggi che toccavano il cuore. Si offrì di preparare gratuitamente la loro figli a per l’esame di ammissione. Riuscì nella sua impesa. La piccola Anna toccava il cielo e voleva abbracciare il maestro, ma esitava. Fu lui ad invitarla fra le sue braccia”…

Anna torna a casa a Loro Piceno dopo aver frequentato la seconda media in Amandola. Un tuffo al cuore: preludio ad un tragico addio.

….”Era in atto una vera e propria rivoluzione. C’era solo la sorella. La mamma era fuori per la spesa, i fratelli a lavoro e il papà forse al bar con gli amici. Non riuscì neanche ad entrare in cucina, la sorella le fece posare la piccola valigia e la invitò a salire al piano superiore. Lì Anna sentì strani rumori: era evidente che c’era gente. Ma quello che la colpì fu che al posto di una vecchia porta sempre chiusa (perché al di là di essa c’era un vano che il proprietario della casa aveva riservato per se in pratica un magazzino), ve n’era un’altra più niova e più bella. La varcarono: una vecchietta giaceva su di un letto in una cameretta modesta ma ben tenuta. Anna era sconcertata. “Ciao Menneca” (sta per Domenica) salutò la sorella, “Ciao Graziella” rispose la donna. “Guarda questa è Anna, mia sorella, ti ricordi che te ne ho parlato?”, “sì vella (ndr bella) de casa, venne (ndr vieni) venne ecco”(ndr vieni qui). Parlava un dialetto stretto stretto. Anna si avvicinò, e quando lei le prese le mani notò il biancore delle sue e le vene che su di esse sembravano esplodere. Ma il viso era dolce e disteso. “Mettete a sede”(ndr mettiti seduta) e le faceva segno sul letto “Fai li studi, vero? Vella, vraa (ndr brava)”. Anna guardava la sorella in modo interrogativo, ma lei le fece un cenno come a rimandare le spiegazioni a dopo. “Adesso andiamo sotto Menneca, poi torniamo”, “Sci velle, tanto io staco ecco, do vaco?” (ndr si belle tanto io sto qui, dove vado?). Dall’altra stanza si continuavano a sentire movimenti. Le sorelle scesero in cucina. E finalmente Anna “ma che sta succedendo?”, “Sopra abita un’altra famiglia”, “Che cosa?”. Ricordò, però, che qualche anno prima, quando i fratelli avevano la camera in quello che diventò poi il laboratorio di Velito nel piano superiore, abitava una signora, Assunta, e che Vittorio dormiva con lei. Ora le venivano in mente altre cose: una di lei nipotina, Carletta, che Assunta obbligava ogni sera a dire il rosario. Ma poi la signora se ne andò e la casa divenne tutta per loro, tranne il magazzino. “Ma quanti ne sono?”, “Che importa, noi stiamo per andare via, ci trasferiamo”. Anna non capiva più niente. Andare dove? E perché? Ancora cambiamenti! Quando avrebbero attecchito le sue radici? E soprattutto: dove?

Sperava che almeno fosse una casa lì in paese. Sapeva che avevano già cambiato una volta, anche se lei a quel tempo era ancora troppo piccola per ricordarselo. “No, andiamo dove sta Velito!” Quindi il fratello aveva attuato quello che aveva in mente. “Sai, c’è il mare!”. No, non riusciva ad avere lo stesso entusiasmo della sorella, capiva solo che le si prospettava un futuro di nostalgia. Ritornò la mamma. “Ah sei già arrivata?”. Era il massimo delle sue manifestazioni d’affetto. Una sola speranza aveva Anna: che lì dove andavano ci fosse una scuola vicina. Ma la speranza venne stroncata dai discorsi che sentì nei giorni seguenti. La nuova casa l’aveva vista solo il papà, era un posto dove tutti i figli avrebbero trovato facilmente lavoro. “Vedrete, lì avrete sicuramente un futuro” diceva la mamma. Anna aveva la netta percezione che, a prescindere dall’andamento scolastico, anche per lei era stato programmato un percorso lavorativo. Ne ebbe conferma dal fatto che non si parlò minimamente di scuola. Tornò dalle zie, finì l’anno scolastico, e fu rimandata in tre materie. Percorse il suo ultimo tragitto in corriera nella più profonda disperazione; lasciava comunque degli affetti e ne stava per lasciare altri. Oltre a luoghi, profumi, cieli e spicchi di vita. Solo la luna sarebbe stata la stessa. Non sapeva ancora quale grande spettacolo le avrebbe regalato riflessa sul mare. Dall’arrivo al suo paese passarono pochi giorni e l’anima si rimise in subbuglio. “Addio monti sorgenti dalle acque…”….

Estate 1960. L’addio a Loro Piceno.

….”Partirono in una splendida giornata di sole. I fratelli sul camion dove avevano caricato la mobilia e quel poco d’altro. La mamma, il papà e le due figlie con una specie di taxi.

Quel giorno Anna vide la mamma piangere per la prima volta. La guardò sotto un’altra luce, anche perché capì che di certo non era la prima volta che lo faceva. Arrivarono prima loro. Il papà diede indicazioni e si fermarono davanti ad un piccolo edificio di tre piani. Vicino ce n’era un altro uguale. Scesero, e mentre il papà si intratteneva con l’autista, Anna notò in fondo alla strada un luccichio argenteo, quasi accecante. Era lì a pochi passi e lei quei pochi passi li percorse come attirata da una magia. La strada finiva ed iniziava una striscia di sassi, l’argenteo si allargava dando spazio ad un azzurro intenso mano a mano che lei si avvicinava. Era uno spettacolo immenso. Anna stava guardando per la prima volta il mare.

Arrivò il camion con la mobilia ed i fratelli, ma bisognava spettare il proprietario dell’appartamento. Tutti i fratelli si misero seduti in fila sul marciapiede. Mancava Velito che lavorava in un paese situato più all’interno, dove aveva trovato anche la fidanzata. Su quel marciapiede si respirava tanta tristezza. Erano lì in silenzio, tutti con il cuore spezzato. Le scelte fatte nel tempo, personali e con dovizia d’intenti, forse hanno senso d’esistere, ma lo sradicamento di massa annulla l’intimo volere. Ti accomuna agli altri, ma ti fa sentire perso nella tua propria singolarità. I genitori rimanevano in piedi, anche loro senz’altro sofferenti e alla ricerca di una giustificazione a tutto quello. L’eterna lotta di sapere ciò che è meglio per i propri figli. Arrivò il proprietario. La porta si aprì sull’ignoto più ignoto. Dove si può trovare la forza per nascere di nuovo? Per cominciare a camminare su un terreno sconosciuto? Come puoi controllare i tuoi passi se gli occhi sono velati di lacrime?

L’appartamento era piccolo, piccolissimo. Addio scale percorse nell’instancabile movimento di una gioiosa frenesia di vivere. Addio grande focolare che accoglievi giochi, sogni, calore vivo e profumi di cibo. Addio vicoli dove si rincorreva una palla colorata che aveva fatto conoscere la preziosità di un regalo. Addio neve in fiocchi, neve sulla strada, neve mangiata, neve sul viso, neve nel cuore. Addio stanze lontane tra di loro che davano respiro alle letture, ai giochi, al lavoro.

Due piccole camere, una piccola cucina, un piccolo bagno. Lì i ragazzi dovevano cominciare a sognare. Anna non riusciva ad amare qual posto e quella vita. E per lei iniziò il periodo più buio della sua esistenza.

Era come vivere su di un altro pianeta. C’era il mare ma gli faceva da cornice lo squallore più squallido. Quattro vie dove spuntavano misere case per gente che veniva da ogni dove per guadagnarsi il pane quotidiano. Quel posto non aveva storia. Non si respirava aria di comunità. Non c’erano viali, non c’erano luoghi ricreativi, né cinema, né biblioteca, né giardini.

Lì Anna vide spegnersi i suoi sogni”…..

Per molti anni mi sono portata nell’animo lo strascico del dolore di questo distacco. Poi con caparbietà ripresi gli studi. Lavoravo e studiavo. Riuscii a conseguire il diploma e quel giorno pensai al maestro Ugo che con tanto affetto aveva cercato di inserirmi in un percorso di studio. Mi iscrissi all’università e detti due esami, ma i problemi economici spazzarono via questo sogno. Poi gli affetti, il diventare mamma e nonna dettero un nuovo volto alla mia vita. Ma Loro Piceno rimarrà sempre una delle più belle esperienze della mia esistenza.

Non avrei potuto avere una culla più gratificante per la mia infanzia.