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Domenico Panicciari. Mimmo de Paniccià

Hai lavorato qui a Loro costruendo birrocci, mezzi tra i più significativi della nostra cultura contadina(1). Nei momenti critici chiedevi l’aiuto oltre che di Daniele Taccari, che pur detto Frollà era forte e bevitore, anche di tua moglie, Luciola: “lesta vutta jò l’acqua, ché lo legno se bbruscia”. Lei era addetta a raffreddare il ferro infuocato nella forgia che cerchiava le grandi ruote del carro.

Faticosa l’arte del birrocciaio: necessitava di un’ adeguata dose di calorie da ingerire. Questi gli ingredienti delle pagnotte ripiene alla Paniccià: alici sott’olio ben salate comprate da Delia d’Orlandi, pane fresco fatto in casa. Preparazione: togliere la mollica, spalmare le alici nella pagnotta, pressare il tutto nella morsa a legno. Chi le ha mangiate non se l’è scordate più. Poi granturco abbrustolito sui tizzoni della forgia. Il vino a questo punto non poteva mancare ed era abbondante, tanto che Franco, tuo figlio tardivo diceva quando era arrabbiato con te, di esserre “figliu de na sbornia e che campava per dispettu tua”. Tu rispondevi: “Se l’invidia e la mardicenza fosse come la cacarella sarimmo tutti smerdati”. A chi ti chiedeva di Demetrio, figlio ancora in fasce con la tosse convulsa, sdrammatizzavi dicendo: ”è dispittusu: campà non campa, murì non more”.

Fatica, pene, mangiare e bere. Tutto condiviso anche con i vicini: un vero cristiano, ma i preti predicavano che “non pioe perché fatichi anche lu jornu de San Pietro e Paulu!”.

Anche i giochi passavano per le tue mani: costruivi ruzzole e bocce di legno al tornio chiedendo in cambio solo qualche “sarciccetta”. Mi sembra che tu facessi anche le ”ciocchette”. 

Ma l’idea geniale fu quella dei “ Santantoni co la mà co sei diti”. Non lo sapremo  mai se li disegnasti apposta o per sbaglio, ma di quella cosa così strana se ne parlò in tutti i paesi del circondario. L’AGIP di sicuro ti copiò e fece “lu cà co sei zampe”.

Però “li carri co li vò non putia gli a binzina e piano piano jette a finì tutti jo n’ cantina che manco Sant’Antò li potette sarvà da la rruina”.
Così in Toscana da vecchio dovesti emigrare, ma una parte di te con noi lasciasti insieme agli ormai inutili birrocci e alla memoria delle tue battute salaci.

Mario Mastrocola 

Con la collaborazione di Rina Panicciari, Gabriele Piatti, Luigi Mastrocola, Roberto Settembri, Claudio Pascucci, Giordano Emiliozzi.


Note:

(1) Il birroccio era un mezzo per tutte le stagioni. Nei tre riquadri delle sponde c’erano dipinti mazzi di fiori e busti di donne che si stringevano al petto un fascetto di spighe. Sant’Antonio Abate, se c’era, era sempre scuro, serio, col cappuccio tirato su. Il birroccio trasportava il grano, la frutta, l’uva e tutto ciò che passava col nome di “grazia di Dio”. Nella campagna qualcuno portava ancora col birroccio il figlio al battesimo e accompagnava la figlia all’altare. Nel periodo della vendemmia passavano in paese più birrocci di sempre; era un lento passaggio di tinozzi e di bigonci. In quell’epoca le strade odoravano d’uva”.

da Dolores Prato “Giù la piazza non c’è nessuno”. Quodlibet. 2009


Cenni Biografici di Panicciari Domenico:

Nacque a Maiano di Tenna nel 1897 da umile famiglia, partecipò alle due guerre mondiali, esercitò sempre il mestiere di mastro carraio, prima a Mogliano dove si era trasferito dopo aver sposato Lucia Carducci (nata nel 1903-morta nel 1977) e dove ebbe il primo figlio: don Angelo. Gli altri quattro figli, Demetrio, Anacleto, Rinetta e Franco nacquero a Loro Piceno dove risiedette e lavorò nella casa di proprietà della famiglia del suocero Carducci, lungo l’attuale via San Serafino. Negli anni ‘60 tutta la famiglia si trasferì in Toscana dove i figli iniziarono a costruire tapparelle. Domenico morì nel 1978 dopo aver assistito amorevolmente la moglie Lucia, smentendo le famose battute che era solito fare contro l’istituzione del matrimonio. 

Note bibliografiche in “Memorie di Loro Piceno” M.Mastrocola – G.Piatti,  pag.8-18-32, www.stampalibri.it , 2020.