Chi, dal fondo dell’attuale via Giacomo Ridolfi, voglia risalire verso la chiesa di San Francesco, incrocerà sulla destra ciò che resta di una piccola via pubblica denominata vicolo Tintoria.
Le demolizioni operate dopo il sisma del 2016 hanno cancellato tale vicolo e quello che chiameremo “Vicolo Stretto”, impedendo oggi di capire il tessuto edilizio originario. Successivamente al vicolo Tintoria esisteva infatti, un altro vicolo, molto stretto, che negli ultimi anni era stato chiuso con un muretto.
Il “Vicolo Stretto” conduceva sul retro della schiera di case, in uno slargo che, nel Catasto Gregoriano di inizio Ottocento, viene definito come orto. Se si osserva la mappa catastale appena citata ci si rende conto che tale vicolo risulta centrale rispetto ad un agglomerato edilizio.
L’orto a cui si alludeva è riportato nella mappa con il numero 15 e si deve considerare, stante la notevole pendenza del terreno, che le particelle 12 ed 11 si trovavano a quota maggiore rispetto alla 15 e alla 14.
Una possibile spiegazione della stretta dimensione di questo vicolo può essere quella che esso altro non fosse che l’unico accesso ad una zona particolare, purtroppo comune a tante città e paesi, e cioè un ghetto o giudecca, residenza forzata per le famiglie di religione ebraica che iniziarono ad essere perseguitate dalla seconda metà del XV secolo in tante parti d’Europa. L’ipotesi appare ancora più plausibile alla luce di quanto detto all’inizio, e cioè in ragione della presenza del vicolo Tintoria. Il nome rimanda ad una attività, quella del tintore, che in molte parti dell’Italia centro-meridionale era appaltata agli ebrei poiché i cristiani ne rifuggivano. La religione cristiana di quei tempi considerava empie tutte quelle attività che andavano nella direzione di trasformare la natura delle cose, così come esse erano state create. Per lungo tempo, anche il mattone fu considerato poco adatto alla costruzione di chiese perché presupponeva la trasformazione dell’argilla mediante il fuoco; per tale motivo anche la trasformazione del colore naturale di un tessuto venne considerata non degna per un artigiano cristiano. D’altra parte la vita del tintore non era affatto semplice poiché tale attività comportava ambienti di lavoro a volte caldissimi, umidi e maleodoranti a causa delle sostanze che venivano impiegate, tra cui l’urina.
La presenza di tintori ebrei è attestata in molti comuni delle Marche tra cui San Ginesio, ma per ora non si hanno fonti dirette che ci documentino con certezza che i tintori loresi fossero di religione ebraica. Abbiamo testimonianze che provano la presenza a Loro di ebrei che esercitavano le attività di prestito nel secolo XVI, d’altra parte tale presenza è indirettamente provata dall’erezione di un Monte di Pietà già nel XV secolo come conseguenza della predicazione di San Giacomo della Marca. Il religioso infatti nelle sue prediche, sosteneva la necessità di rendere possibile, anche per i cristiani, l’attività bancaria proprio per sottrarre spazio economico ai prestatori ebrei. Così i Monti di Pietà dovevano fornire denari senza alcun tasso d’interesse, ma la loro efficacia fu scarsissima tanto che in molte città, ed anche a Loro, si registra la presenza, autorizzata dal potere ecclesiastico, di banchieri ebrei per tutto il XVI e XVII secolo. A testimonianza riportiamo quanto scritto da Mons. Giovanni Cicconi:
”Monte Frumentario – Se ne ha memoria nel secolo XV, quando i monti frumentari sorsero per lo zelo del Santo Minorita Giacomo della Marca, per strappare il popolo cristiano alle <ugne> degli ebrei usurai, che a Loro dovevano mercanteggiare dalla vicina Macerata, seppure non ebbero qualcosa anche a Loro. Sorgeva nella casa, oggi Via Vittorio Emanuele II, proprietà della Congregazione di Carità.” (1)
Esiste però un altro elemento che può essere ricondotto alla presenza stabile di una comunità ebraica non ancora soggetta ad un regime di coercizione. Esso non è altro che un toponimo, conosciuto da tutti i loresi per indicare una particolare area libera da costruzioni posta nelle vicinanze del vicolo Tintoria: l’Ortacciu, area sottostante “l’Arco Gotico” risalente al XII secolo, opera di maestranze locali medievali e ultima testimonianza dell’antico tratto di mura.(2)
Con tale termine (Ortaccio, in senso dispregiativo) viene designato in molte città italiane il cimitero degli ebrei, da Roma a Modena a Siracusa e Cremona e via dicendo. Inoltre lo stesso termine designava un’area in cui veniva praticato il meretricio. Non è chiara la delimitazione dell’area indicata dal toponimo, ma è probabile che tale nome non sia associabile alla sola area a verde ancor oggi libera da costruzioni come lo era già nel catasto gregoriano (particella 85).
Sia l’area del vicolo Tintoria, sia quella dell’Ortacciu gravitano nella zona dove una volta doveva sorgere la chiesa di San Giovanni con annessa commenda ed “hospitale”. I giovanniti ospitalieri erano soliti fornire assistenza a chiunque ne avesse bisogno, senza discriminazione di religione o provenienza. Si ricorda tra l’altro che San Giovanni è considerato un profeta sia dai cristiani sia dagli ebrei. Nel già citato Catasto Gregoriano è indicata, al termine dell’attuale via Ridolfi, proprio la Porta di San Giovanni che, lo ricordiamo, era anche uno dei quartieri in cui era suddiviso il nucleo storico di Loro Piceno.
Ci troviamo quindi in un’area di notevole interesse per quanto concerne la storia meno conosciuta di questo centro. L’ubicazione esatta del complesso giovannita non è conosciuta, ma un’ipotesi può essere avanzata e cioè che essa possa coincidere con l’area contrassegnata dalle particelle 88 e 90 della mappa gregoriana. I fabbricati ancora oggi esistenti mostrano alcune particolarità architettoniche che li rendono unici nel panorama delle costruzioni del centro storico, come la presenza di una corte centrale con un pozzo cisterna, una scalinata d’accesso dalla corte al piano superiore ed un percorso coperto e facilmente chiudibile che rende il complesso protetto e senza accessi dalle vie esterne. Potrebbe essere questa l’area dell’ospitale/commenda. D’altra parte i luoghi di accoglienza per i pellegrini erano sempre posti in prossimità, se non in adiacenza, alle porte degli antichi abitati. Si potrebbe ipotizzare la localizzazione dell’antica chiesa di San Giovanni nell’area occupata dall’antico palazzo Savini, particelle 91 e 92, oggi in Vicolo Bonaventura Milani e inglobata dal palazzo stesso, della quale rimarrebbe a testimoniarne la presenza, un timpano a livello di piano strada.
Tornando alla possibile presenza di una comunità di artigiani ebrei va ricordato che essi vengono menzionati come tintori in molti centri italiani e delle Marche. Le Marche, tra il XIV e il XVII secolo, conobbero un forte sviluppo economico-sociale anche grazie al guado (Isatis tinctoria), un’erbacea dalle cui foglie si ricava il colore blu, utilizzato storicamente sia in tintoria sia in pittura.
A testimonianza di questa antica economia e tradizione sono state ritrovate 50 macine da guado in pietra nell’area montana della provincia di Pesaro e Urbino, alcune visibili nei borghi di Piobbico, Apecchio e Lamoli, Pergola (chiesa di S. Maria delle Tinte, la chiesa fu voluta dalla Corporazione dei Tintori e Lanaioli che ebbe i propri laboratori in questa parte della città, dove per sei secoli vissero e lavorarono) altre vanno cercate davanti alle chiese del Montefeltro, impiegate come basi per croci monumentali.(3)
Altro arbusto diffuso in tutto l’appennino marchigiano è lo scotano (Rhus cotinus). Le coltivazioni del passato, chiamate “scotanare” sono state localizzate principalmente nel pesarese (Piobbico, Cagli, Acqualagna, Urbino e Fossombrone), nell’anconetano (Arcevia, Fabriano) e nel territorio del maceratese (Serrapetrona, Tolentino). Lo scotano, come il guado, veniva impiegato in tintoria, in quanto se ne estrae il colore giallo. Da quest’ultimo in associazione con il solfato di ferro si ottengono anche il colore marrone, il viola e il nero.
L’attività del tintore, tra l’altro, richiedeva delle grosse caldaie in rame dove far bollire i tessuti, ma si ricorda come anche nella produzione del vino cotto, all’interno dei palazzi signorili loresi, venivano utilizzate delle grosse caldaie in rame. Ne consegue che l’attività della lavorazione del rame doveva essere fiorente a Loro nei secoli passati. Nel Piceno sono ben noti due paesi, Force e Monsampolo, come centri famosi per la presenza di esperti ramai e d’altra parte a Loro ha operato fino a pochi decenni fa un abilissimo artigiano, Giannino Consolati, che nella lavorazione del rame eccelleva. Prima di lui, intorno agli anni ’20 del 1900, i fratelli Domenico e Paolo Consolati di professione “caldarai” ebbero la loro bottega a Loro Piceno. Paolo ebbe l’attività di calderaio nel laboratorio che successivamente sarà di Giannino, mentre Domenico ebbe la sua bottega a valle di vicolo Tintoria, attuale Via Francesco Crispi. Tutti i suddetti ramai vennero a Loro Piceno da Force. La presenza di calderai nella zona verrebbe avallata ulteriormente dal fatto che l’area risulta ricca di acqua, materia prima indispensabile per i ramai sia per la stagnatura sia per i vari lavaggi durante le lavorazioni. La presenza di acque in tale area è, inoltre, testimoniata dalla chiesa di Santa Lucia. Il nome della santa risulta spesso legato alla presenza di acqua e sorgenti. Infatti si racconta che Lucia, per sfuggire alle persecuzioni, del periodo di Domiziano, riuscì a rifugiarsi nella contrada di Mendola dove visse in una grotta per nascondersi. Per combattere la fame e la sete ci fu un miracolo: da una roccia sgorgò una sorgente di acqua. E proprio quell’acqua fu considerata negli anni successivi miracolosa in quanto avrebbe curato gli occhi da malattie e cecità. Inoltre è da ricordare che oltre a quella del tintore anche l’attività del calderaio comportava ambienti di lavoro maleodoranti e rumorosi, quindi tali attività venivano localizzate ai margini del centro abitato.
Gli artigiani ebrei vengono ricordati, oltre che come tintori, anche come calderai.
Se per Force le fonti parlano di un maglio impiantato dai monaci farfensi fin dal Seicento, è bene ricordare che per il nostro territorio è attestata, su base documentale, la presenza di un maglio fin dal XII secolo. Infatti una pergamena proveniente dal fondo dell’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra riporta (pergamena del luglio 1176) come Aldruda, moglie di Giberto, donasse la quarta parte del maglio del marito (probabilmente morto) a sua figlia Imilla e a suo marito, insieme ad altri beni. Il contesto descritto nella pergamena rimanda alla corte de Loru (antica denominazione di Loro Piceno) e quindi al nostro territorio che già nel XII secolo possedeva strutture produttive per la lavorazione del metallo. Non è chiaro se tale maglio fosse per la lavorazione del ferro o del rame, ma sono attestati esempi, in altre zone d’Italia, dove tale arnese veniva utilizzato sia per l’uno quanto per l’altro dei metalli. L’estrema importanza che tale maglio doveva avere si evince dal fatto che esso venisse nominato come primo elemento della donazione e solo successivamente si parli in modo generico degli altri beni che riguardavano il ragguardevole patrimonio di Giberto: un castello (Loro?), chiese, poderi agricoli e quant’altro.
Per ora non siamo in grado di stabilire se la permanenza a Loro di grandi caldaie in rame per il vino cotto derivi dalla presenza plurisecolare della lavorazione del rame, ma crediamo rilevante riportare un altro episodio. Siamo alla fine del XV secolo ed a Loro si è già stabilita una comunità di fuoriusciti albanesi, in fuga dalla loro terra conquistata dai Turchi.
A tale proposito anche il Cicconi, nel suo libro, riporta che sul finire del 1400:
“Funesto portato dagli odi e dalle dissenzioni civili, compaiono nella storia del paese di quest’epoca esuli e banditi: gli ultimi specialmente, dandosi alla campagna, divenivano il terrore del contado e con improvvise avanzate fin sotto le mura e le porte del Castello, mettevano in pericolo la incolumità degli abitanti eludendo e sfidando pure, all’occorrenza, i preposti alla pubblica difesa. Contro questa mala genia più volte il Parlamento prese energiche misure e domandò l’appoggio della Magnifica comunità di Fermo, la quale poi, rimetteva la cosa in mano dei Priori e di particolari cittadini e per lo più non si veniva a capo di nulla (dal Libro delle Cernite di Fermo, febbraio 1459, maggio 1460).
Un contingente non trascurabile degli affiliati alla mala vita – come si direbbe con frase moderna – lo davano gli Albanesi:<<Molti Albanesi, scrive uno storico, vedendo preso dai Turchi il loro regno, anno 1453, vennero nella Marca, si posero a coltivare le nostre campagne che per la peste antecedente erano quasi prive di abitatori e furono ceppo di molte odierne famiglie de’ nostri contadini>> (Brandimarte, Plinio Seniore illustrato, 1815 pag 179). Fermo e il suo contado accolse una gran quantità di queste famiglie straniere – non tutte per verità plebee, ma anche civili e di alto linguaggio- e Loro ne ebbe anch’esso parecchie, naturalmente però dovevano essere delle meno ragguardevoli, o come diciamo oggi, appartenenti al più basso stato sociale.(4)
Tale conquista fu la responsabile di una vera e propria migrazione di albanesi cattolici di rito ortodosso che si spostarono in molte parti dell’Italia centrale e soprattutto meridionale. Ancora oggi tra Basilicata e Calabria resistono intere comunità che parlano un dialetto albanese ed alcune di queste ancora conservano il rito bizantino. La comunità lorese non doveva essere composta da persone impoverite dall’aver abbandonato i loro beni e le loro attività nella terra d’Albania, ma di alto linguaggio, come ricorda il Cicconi, poiché queste persone commissionarono, nella chiesa principale del paese, Santa Maria di Piazza, in posizione prestigiosa, un affresco fortunosamente conservatosi fino ai nostri giorni. Esso ritrae una martire, Santa Veneranda (o Venere), la Parasceve (che nella consuetudine giudaica indica il giorno di preparazione alla festività del sabato; nella liturgia cristiana, indica il venerdì della settimana santa).
La curiosità è che tale Santa non viene ritratta mentre subisce la definitiva esecuzione per decapitazione, ma in un momento precedente, nel quale ella viene immersa in una grande caldaia con olio bollente per farle subire un supplizio tremendo da cui però la Santa esce indenne. L’iconografia della Santa solo in un’altra occasione prevede la rappresentazione della martire all’interno di una caldaia ed è nel polittico di Pietro Alemanno per la cattedrale di Ascoli, dove si dice il corpo sia stato conservato fino al V secolo. Anche per la tavola ascolana la commissione arriva dalla ricca comunità locale di albanesi. Nell’ascolano, come abbiamo detto, gli artigiani del rame erano molto attivi.
“Nella persona di questa santa martire si condensarono tanti contenuti e in modo talmente efficace da farla emergere in età medievale come un < exemplum virtutis> di successo popolare, soprattutto nei paesi dell’area balcanica quali la Jugoslavia, la Grecia, l’Albania, la Bulgaria e la Turchia. In questi paesi transitarono le presunte spoglie della santa e furono edificate chiese in suo onore. Nel XV secolo poi la migrazione dei Turchi obbligò all’esodo molte comunità residenti in questi luoghi, comunità che espatriando nelle vicine coste italiane (quelle stabilitesi nelle Marche traversando l’Adriatico per lo più dai porti della Dalmazia) trovarono accoglienza soprattutto nei territori dello Stato Pontificio e in quelli del Regno delle Due Sicilie, proprio dove oggi è più frequente riscontrare tale iconografia ….(omissis)….Nei territori d’adozione la santa perse ben presto la sua origine orientale per attestarsi quasi ovunque come martire locale. Nelle Marche il rapporto tra le etnie citate e l’iconografia della santa non è frutto di mera teoria. Un primo esempio concreto lo troviamo ad Ascoli Piceno.(5)
…se infine sono testimoniate corporazioni di albanesi e confraternite dedicate a Santa Venera nelle Marche degli anni ’80 del ‘400, una comunità albanese sufficientemente affermata e forse anche organizzata in forma di confraternita potesse commissionare a Loro Piceno tra il 1497 e il 1500 un’opera di costo contenuto (sullo stesso livello della cappella di Potenza Picena per intendersi) per il proprio altare, scegliendo iconografia e artisti. Una committenza di questo tipo è quella che noi ipotizziamo sia intervenuta in territorio lorese; la scelta dell’artista che dipinse il Martirio di Santa Veneranda Parasceve non dovette essere casuale, ma sempre legata agli albanesi, alla loro cultura, alle loro conoscenze sul territorio marchigiano.(6)
Potrebbe essere che questa modalità di rappresentare una santa particolarmente venerata dagli albanesi, e dai bizantini in genere, derivi dal voler rappresentare anche l’attività che queste persone svolgevano con maestria? Se ciò fosse vero allora dovremmo parlare di calderai albanesi e non ebrei o autoctoni.
A questo proposito è utile ricordare che Via Giacomo Ridolfi è conosciuta dai loresi come Costa dei Fabbri. In tale via in effetti, fino a pochi decenni fa, è vissuta una famiglia conosciuta da tutti come Fabbri, il cui nipote Amaro Lisi non proseguì l’attività di fabbro, come i suoi antenati, ma nella bottega aprì una ferramenta: la famiglia potrebbe aver preso nome dall’attività esercitata in un luogo dove da sempre si lavoravano i metalli?
Il toponimo “Costa dei Fabbri” è presente in molti altri luoghi. Gli indizi rimandano quindi ad una zona del centro storico lorese dove potrebbero essersi concentrate particolari ed importanti attività artigianali e dove potrebbe aver vissuto per lungo tempo una comunità ebraica tanto da rendere necessaria anche la creazione di un piccolo ghetto dopo le leggi coercitive emanate da Papa Pio V. In tale luogo, inoltre, potrebbero essersi insediati, prima, anche dei calderai albanesi arricchitisi tanto da commissionare un affresco (nella chiesa di Santa Maria di Piazza) e poi dei calderai locali e qui potrebbero situarsi anche il cimitero ebraico e la chiesa di San Giovanni con annesso Ospedale e Commenda. Non crediamo che il maglio potesse essere stato nella stessa area poiché esso richiede la presenza di un salto d’acqua per azionare la pesante mazza battente, ma esso testimonia comunque l’attitudine presente in questo contesto per la lavorazione dei metalli. Esso andrebbe posizionato probabilmente lungo il Fiastra mentre l’acqua per l’attività tintoria poteva provenire anche dall’escavazione di pozzi o da cisterne delle quali ancora c’è traccia in detta zona. Possiamo per ora portare solo contributi parziali, sviluppabili però in una ricerca che potrà perfezionarsi con il tempo e su cui ci piacerebbe chiamare a partecipare chi lo volesse e chi fosse interessato. Un approfondimento, che speriamo possa andare nella direzione di chiarire alcuni aspetti relativi ai temi trattati, è quello che stiamo conducendo su un testo molto particolare, presente nell’Archivio Storico del Comune di Loro Piceno, testo da sottoporre ad un esame approfondito. Trattasi di un libro, catalogato come “Libro dei conti di un mercante di panno 1479/1523”.
Visti gli argomenti trattati, sarà dirimente capire se all’interno di questo libro possano esserci elementi legati alle attività artigianali o commerciali relazionabili alla produzione tessile che, insieme all’agricoltura, costituì la principale fonte di ricchezza per le nostre zone. Il testo, ad una primissima lettura, sembra essere costituito da una miscellanea di documenti, dove alle annotazioni delle somme da pagare per determinate forniture di tessuto fatte da un tale Giovanni di Francesco si associano i brogliacci di alcuni atti notarili da rogarsi da parte del notaio Pietro Paolo di Gregorio, negli anni ’90 del Quattrocento. Contiamo quindi in un prossimo futuro di poter fornire maggiori dettagli, nella speranza di chiarire alcuni aspetti ancora da appurare.
Relativamente alla presenza ebraica nel nostro paese, aggiungiamo ulteriori informazioni riguardanti il quartiere ebraico di Apecchio (PU) che ha conservato intatte tutte le caratteristiche urbanistiche e architettoniche. Ci potremmo così rendere conto di come poteva essere il “Vicolo Stretto” di accesso al ghetto e anche il tipico forno senza canna fumaria che gli ebrei usavano per cuocere il pane azimo.(7)
Poiché una tipologia simile di forno è tutt’ora presente nel seminterrato di una casa nei pressi dell’Ortaccio, potremmo ipotizzare che tale forno, seppure mancante di basamento e bocca, ma con la volta intatta, possa essere un antico forno ebraico.
(visibile la parte superiore annerita dal fumo mentre la parte inferiore non mostra tracce di annerimento in quanto doveva ospitare il piano di cottura del forno)
Note:
(1) Mons. Giovanni Cicconi – Notizie Storiche di Loro Piceno, pag. 167- Casa editrice Dott. A. Giuffrè- Milano 1958 ⇑
(2) https://catalogo.beniculturali.it/detail/ArchitecturalOrLandscapeHeritage/1100238336-bene-individuo ⇑
(3) Art Night – RAI Ufficio Stampa -Rai.it -01 nov. 2023, I colori dell’arte: il blu. ⇑
(4) Mons. Giovanni Cicconi – Notizie Storiche di Loro Piceno, pag. 96 – Casa editrice Dott. A. Giuffrè- Milano 1958 ⇑
(5) Consolati, Mucci, Nalli – Loro Piceno, pag. 309, 310 -Giuffrè Editore – Milano 1958 ⇑
(6) Consolati, Mucci, Nalli – Loro Piceno, pag. 312 -Giuffrè Editore – Milano 1958 ⇑
(7) Servizio trasmesso dal TGR Marche il 3 aprile 2024 ⇑
Curiosità:
A Lauris, in Francia, nel cuore della Provenza, c’è un giardino che contiene 250 specie di piante tintoriali diverse. È un posto un po’ speciale, dominato dall’antico castello del villaggio arroccato sulla costa del fiume.
Nello stemma sono presenti due rami di alloro incrociati.
http://www.inprovenza.it/cosa-fare/esperienze-a-tema/couleur-garance-un-giardino-di-colori
Luras (Luras in sardo, Lùrisi in gallurese) è un comune italiano di 2400 abitanti della provincia di Sassari nella subregione storica della Gallura.
Luras è stato attestato in passato con la forma Lauras. Quella attuale, nella lingua locale, si presenta come “Lùra-a”. Il suo significato è da rintracciare nella voce “Laurus”, col significato di “alloro”.
In Sardegna correva la leggenda secondo cui gli abitanti di Luras sarebbero di etnia ebraica, in quanto i luresinchi (abitanti del villaggio di Luras) sono sempre stati dei bravi commercianti e contabili.